Twitter è sempre più il salotto della nuova borghesia digitale che lì si esprime connessa attorno ad hashtag, re-tweet e mezioni che mostrano la rete di una sfera pubblica connessa che si esprime con la propria voice. Una voice che talvolta si contrappone altre volte fa da contrappunto a quella dei media tradizionali.
Nell’Inghilterra del XVIII secolo, alle radici della società moderna, sono i caffè ed i salotti i luoghi in cui la borghesia emergente forma le proprie opinioni attraverso un agire comunicativo razionale, come spiega la ormai classica lettura di Habermas “Storia e critica dell’opinione pubblica” (1962). Il declino di questa realtà lo abbiamo con lo sviluppo della stampa periodica e con il consolidamento dell’industria mediale la conseguente trasformazione da strumenti di discussione critica a strumenti di controllo e manipolazione: verso un consenso fabbricato.
Lo sviluppo contemporaneo prima della realtà dei blog poi di quella dei social media, le pratiche del double screen, le forme di social television, ecc. hanno fatto immaginare la contrapposizione tra una voce costruita dai media generalisti e quella delle conversazioni dal basso.
Oggi, con la saturazione e diversificazione dei canali dei media sociali da parte di un pubblico consistente, con la presenza sempre più evidente di professionisti dell’informazione e della comunicazione su Facebook, Twitter o Instagram, il quadro dell’agire comunicativo razionale all’interno degli stati di connessione richiede una lettura più attenta a quegli intrecci che si generano fra voice dall’alto e dal basso, fuori dai giudizi di valore e con il bisogno di un’attenzione critica di quei fenomeni di costruzione di un’opinione pubblica che si giocano all’intreccio tra conversazioni nel digitale e visibilità mediale. È attorno a questa realtà che spesso possiamo osservare l’azione degli influencer che si fanno sempre più borghesia digitale, riacquistando un ruolo di centralità nel gioco retorico di contrapposizione con i media dominanti che spesso, è appunto, solo una retorica.
È partendo da queste considerazioni che possiamo ripercorrere il recente caso Eni vs Report.
La trasmissione televisiva Report su Rai3 del 13 dicembre intitolata “La Trattativa”, è dedicata al supposto affare da un miliardo di dollari dell’Eni per l’acquisto della licenza per sondare i fondali marini alla ricerca del petrolio in Nigeria. L’Eni contrappone una sua narrazione su Twitter in contemporanea alla diretta, immettendosi nel flusso di social television generato attorno all’hashtag #report, commentando in prima persona attraverso l’account di Marco Bardazzi che è Communications Director di Eni e attraverso l’account ufficiale del gruppo.
Ne è emerso un dibattito online che è sfociato anche nei media mainstream, e che ha messo l’accento sul “caso di successo” di un’azienda come Eni capace di proporre una propria contro-informazione costruendo un contraddittorio (come raccontano Insopportabile e Giuseppe Granieri), di gestire il crisis management ottimizzando l’online reputation (come racconta Jacopo Paoletti).
È indubbio che questo rappresenti un caso di studio interessante per chi si occupa professionalmente di comunicazione aziendale, di online P.R. ecc. Ma il rischio si affermi una retorica di Davide contro Golia (ne ho parlato con Simone Cosimi per Repubblica) è forte: è la Rete vs la TV, le conversazioni dal basso vs i media generalisti e così via. Solo che se la parte di Davide la interpreta Eni, capite che qualcosa rischia di sfuggirci. Da una parte abbiamo il giornalismo di Report (con il proprio format televisivo, il proprio modo di affrontare i temi e potenzialità e limiti di questo formato, con il rischio di essere una “macchina di giornalismo a tesi”). Dall’altra la produzione di una contro narrazione, la proprio visione aziendale comunicata in diretta come fact checking. Di fatto la riduzione della vicenda ad una contrapposizione di due visioni del mondo contrapposte. Una narrazione vs l’altra. Una questione di storytelling e non più di giornalismo.
In mezzo i pochi che hanno cercato di riportare l’attenzione sulle forme che sta assumendo oggi il modo di fare giornalismo (come Massimo Mantellini nel suo post sul bisogno di un giornalismo adulto) o sulla necessità di concentrarsi sul tema (con le domande di chiarimento Andrea Zitelli e Arianna Ciccone fatte su Twitter ad Eni).
In tutto una manciata di fonti. Pochi contenuti molto condivisi. Molta visibilità ma, di fatto, poco dibattito nel merito. Sia all’interno dei social media che nei media generalisti. Molto racconto dell’evento in sé.
Ma il vero punto è: in che modo è emersa la narrazione di Eni? Attraverso quali strategie di circolazione e visibilità su Twitter? Da cosa deriva questo senso diffuso di un’eccellente azione comunicativa di Eni capace di controbattere Report e guadagnarsi posizioni (non confermate da alcun dato) di online reputation?
L’unico modo di capirlo è entrare nei dati, nelle logiche di connessione reticolari di Twitter, attraverso una social network analysis che mostri la propagazione dei contenuti e faccia capire in quali modi un contenuto diventa più visibile di un altro. Questo lavoro lo ha fatto Matteo Flora in the Fool, mostrando come, di fatto, su Twitter abbiamo avuto una contrapposizione fra influencer che hanno condiviso e valorizzato Eni e utenti comuni che hanno condiviso e dato voice a Report.
è palese come esista una differenza sostanziale tra il consenso espresso dagli utenti di Twitter rispetto a Report contro quello espresso su Eni. Nel caso di Report si rileva un’attività più elevata di utenti “comuni” che condividono i contenuti della trasmissione e discutono, una massa sostenuta ma poco “influente” che condivide – per lo meno sulla carta – le motivazioni e le teorie di Report.
Dalla parte di Eni abbiamo, invece, un consenso costruito principalmente da “nomi eccellenti” di Twitter e non solo, che si consolidano intorno alla figura di Marco Bardazzi, ed Eni stessa. Stiamo osservando una rete di relazioni, una sorta di piccolo manipolo di consenso che è riuscito a ribaltare le sorti altrimenti scontate della comunicazione sui Social di Report.
È l’emergere della borghesia digitale, quella piccola rete di influencer molto coesa e connessa che frequenta gli stessi “caffè” e che, se strategicamente stimolata, è in grado di re-intermediare i contenuti, di produrre visioni di consenso su contenuti e condividere con autorevolezza visioni del mondo a partire dalla centralità del loro nodo in una rete di distribuzione, lettura e fandom digitale. Sono loro a garantire circolazione e visibilità di specifici contenuti, a rinsaldare attraverso queste condivisioni i rapporti tra loro e a dare corpo all’opinione borghese sulle vicende della Rete, appunto. Se pensiamo agli influencer nella twittersfera italiana troviamo tra i nodi di influenza soggetti che sono anche professionisti e consulenti nel mondo dell’informazione e della comunicazione, che talvolta sono parte in causa di ciò che viene dibattuto, che non solo producono storytelling ma che di quello storytelling fanno parte.
L’errore che oggi rischiamo di fare è di tenere conto di una sola sfera pubblica in Rete – lo stesso errore fatto da Habermas di considerare la sfera pubblica come unica ed unitaria –, quella cyberborghese, tralasciando le molte altre sfere pubbliche che magari sono meno visibili ma che attorno agli stessi trending topic si generano. La voice su Twitter di Report dei non influencer in che modo si è espressa? Attraverso quali reti?
Se non cominceremo a porci queste domande, a scendere sotto la superficie dei #win e dei #fail analizzandone le dinamiche di creazione continueremo a raccontare la storia di uno spontaneismo del digitale, del “popolo della Rete”, delle visioni unitarie in un mondo fatto di differenze che, se vogliamo, possono essere rese visibili.
[…] vivisezionano la vicenda da ogni prospettiva possibile arrivando addirittura a parlare di Twitter come il salotto della nuova borghesia digitale. Al riguardo è di […]
[…] un’ impostazione rispetto ad un altra; questo spunto è molto interessante nell’ultimo articolo di Giovanni Boccia […]
[…] un’ impostazione rispetto ad un altra; questo spunto è molto interessante nell’ultimo articolo di Giovanni Boccia […]
[…] nel merito della social querelle. Questa volta tutto sommato ha vinto la TV considerato che gli utenti coinvolti su Twitter intorno a Report erano poco più di 2000 e i tweet generati poco pi…, ma personalmente auspico che gli autori delle inchieste televisive si premurino di fare second […]
L’ha ribloggato su Appunti Spettinatie ha commentato:
[questo caso presenta diversi temi da approfondire. Un altro, ad esempio, è la finta illusione che i social consentano disintermediazione]
[…] Questo post è in bozza su carta dal 19 dicembre 2015 ed è stato ispirato anche dalla lettura di un post che ho trovato illuminante, ecco il link […]
Mi perdoni, prof, ma alla fine del suo articolo mi è venuto da sorridere, perché ho pensato ai bimbiminkia che intasano puntualmente i Trending Topic di Twitter: anche la loro è, ahimè, una “sfera pubblica” di cui tenere conto. A parte gli scherzi, lei ha colto il punto: gli algoritmi che regolano le timeline dei social network sembrano tendere sempre di più a privilegiare i post, i tweet, le opinioni degli influencer (e Twitter da un po’ ci notifica cosa ci siamo persi). Le voci dei non influencer quasi sempre sono inascoltate e diventano impercettibile rumore di fondo, proprio per come sono costruiti i newsfeed. È un problema complesso. Serve più information literacy da parte delle persone comuni (non solo per diventare influencer), ma anche un maggiore sforzo da parte dei player della Silicon Valley, per costruire algoritmi (soprattutto nel consumo di news) che permettano di ascoltare voci “fuori dal coro” e far emergere, periodicamente, legami deboli. Insomma, ancora una volta torna in ballo l’importanza della serendipity. 😉
A proposito della “trasparenza” degli algoritmi le segnalo anche quest’articolo di Andrea Daniele Signorelli su Rivista Studio: http://www.rivistastudio.com/standard/lera-degli-algoritmi/
[…] 1. costruiscono un rapporto con le nicchie: che siano una comunità di interesse, gli influencer o la nuova borghesia digitale, è possibile costruire una relazione più ristretta, capace di “cerchiare” specifici […]
Ottimo pezzo. Un’altra conferma del fatto che i social network sono semplicemente la nuova televisione, laddove ai vincoli imposti dalla commissione parlamentare della tv pubblica o alla redazione di una tv privata si sostituiscono i numeri e gli algoritmi della Silicon valley. Ed ecco che i social, entusiasticamente acclamati come la rivoluzione democratica dell’informazione, non sono altro che l’ennesimo strumento volto a conferire una parvenza di partecipazione del tutto fittizia.