Il senso comune sui social network

E’ una questione di responsabilità.

Dopo la scoperta dei social network da parte del mondo dell’informazione – scrivo “social network” ma dovrei dire “Facebook” – i pezzi di costume al proposito, le analisi su fatti del giorno al tempo della connessione, si moltiplicano.

È una cosa molto utile. Ed è una responsabilità.

È una cosa molto utile perché le tecnologie mediali non sono oggetti della natura ma articolazioni complesse di codici culturali, di abitudini d’uso, di percezioni e credenze che si modellano socialmente a partire dalle caratteristiche tecniche possedute e dalle possibilità che racchiudono (anche non espresse chiaramente, ad esempio dal marketing). Quindi la “tecnologia immaginata” è il modo che abbiamo per calare nel contesto quotidiano l’innovazione e tentare di normalizzarla rendendola familiare e vicina a noi.

E allo stesso tempo divulgare le tecnologie nuove, delinearne possibili profili e sviluppi, immaginare i mondi che schiuderanno e chiuderanno è una responsabilità sociale. I giornalisti, come gli scrittori, i registi, gli artisti, ecc. sviluppano narrazioni che, da una parte rappresentano, dall’altra costruiscono il senso comune delle tecnologie.

Nel nostro caso il “senso comune sui social network”.

In questi ultimi giorni due articoli di questi narratori del senso comune hanno colpito la mia attenzione: L’amicizia svuotata nell’era di Facebook di Maria Laura Rodotà sul Corriere della Sera e Il mondo finto di Facebook di Roberto Cotroneo sull’Unità (questo come contrappunto del primo).

Non li ritengo particolarmente informativi riguardo ai contenuti: il tono è un po’ enfatico (“non più una frequentazione continua fatta di serate, discussioni, reciproche consolazioni. Casomai, un dialogo virtuale fatto di battute tra individui che quando va bene si sono visti due volte”, “i membri dei social network tendono a mandarsi regali finti, fiori finti (non virtuali, finti, ribadisco), e naturalmente auguri finti”), ci sono affermazioni generiche prive di dati (“Ci sono stati meno incontri anche brevi per salutarsi.”, “Quello che nessuno dice è che gli adulti (per i ragazzini è un’altra cosa, ed è vero) stanno staccando la spina.”), spesso domina un approccio “delle sensazioni” anche se il contesto è quello di rappresentazione/costruzione dell’opinione pubblica (è sempre la stampa, no?).

È invece interessante dal punto di vista della cultura mediale leggere come venga messo a tema Facebook attorno alle forme di de-umanizzazione dei rapporti:

Non più legame affettivo e leale tra affini che fa condividere la vita e (nella letteratura classica) la morte. Assai più spesso, un contatto collettivo labile che fa condividere video di Berlusconi, Lady Gaga, Elio e le storie tese. Non più una frequentazione continua fatta di serate, discussioni, reciproche consolazioni. Casomai, un dialogo virtuale fatto di battute tra individui che quando va bene si son visti due volte.

Come si vede si generalizza dando per scontato che la semantica della parola “friend” utilizzata su Facebook sia coincidente con quella che utilizziamo nel quotidiano per definire gli appartenenti al mondo vicino e che gli uni “amici”, oggi, sostituiscano gli altri. D’altra parte siamo in una seconda vita no? E non ne abbiamo più una prima. Le ricerche fatte sembrano andare in altra direzione, sembrano mettere le cose in prospettiva e privilegiare un pensiero più complesso sulla faccenda, fatto di relazioni molteplici, connessioni deboli e forti che utilizzano le capacità gestionali della comunicazione mediata e, per gli adolescenti, conversazioni mediate che proseguono quelle che si fanno in real life. Ma pazienza. Qui non ci interessa la prospettiva della realtà delle cose ma gli immaginari connessi ai social network e la costruzione di questi immaginari da parte dei narratori del senso comune. Il versante de-umanizzante, quindi, dal quale rifuggire.

E infatti

c’è una cosa nuova e importante. È un titolo di merito, di stile e di eleganza non esserci su Facebook. E quando incontriamo qualcuno, sempre più raro, che dice: non sto su Facebook lo guardiamo con ammirazione. Uno che non ci è caduto, uno che non ha bisogno di taggare, di cliccare il “mi piace”, di scrivere la nota, di mettere lo stato quotidiano. Uno che se vuole parlare con qualcuno lo invita a colazione o per un aperitivo.

Il vero snob negli anni ’90 non ha il cellulare, il resto è cyberborghesia – e talvolta demagogia.

D’altra parte nel 1893 si legge sul “Lightening”:

[Il telefono] è stato recentemente sperimentato, con esiti soddisfacenti, in una residenza di campagna, come utile strumento per alleviare la gravosa incombenza di intrattenere la nobiltà. Temo tuttavia che, appena svaniti gli effetti della novità, anche il divertimento verrà meno. Personalmente, poche cose mi fanno più orrore del telefono.

Una delle tante “tracce” di narrazione dei mondi che si possono leggere su “Quando le vecchie tecnologie erano nuove” (oggi non disponibile ma molto utile da leggere per chi vuole mettere le cose in prospettiva) di Carolyn Marvin che scrive, anche:

Anziché scaturire direttamente dalle tecnologie che le ispirano, le nuove consuetudini vengono improvvisate a partire da quelle vecchie, non più funzionanti nei nuovi contesti. Si cerca insomma di ristabilire l’equilibrio sociale, con tutti i rischi che ciò comporta. In definitiva, dunque, non è tanto nelle consuetudini indotte dai nuovi media (le quali si determinano in un secondo tempo e tendono ad imporre, se non una soluzione, almeno una tregua temporanea a quei conflitti), quanto piuttosto nell’incertezza delle consuetudini di comunicazione che emergono o sono contestate, che è possibile osservare più agevolmente lo sforzo compiuto dai gruppi per definire e collocare se stessi.

Un po’ più di attenzione dunque. Divulgare il nuovo comporta la responsabilità di costruire gli immaginari sui quali si colloca il senso comune e i contesti di narrazione hanno un loro peso. Per questo ritengo che i mezzi di informazione generalisti (radio, quotidiani, televisione) oggi abbiano più che mai una responsabilità nel prefigurare una realtà che è già qui.

PS La frase di Cotroneo “Ma nessuno, tra i sociologi e gli psicologi che si occupano dei social network va al fondo delle cose.” mi è sembrata di una superficialità imbarazzante e la ripropongo provocatoriamente rispedendola al mittente “Ma nessuno, tra i giornalisti e gli scrittori che si occupano dei social network va al fondo delle cose.”

Aggiornamento.

Consiglio la lettura sullo stesso argomento del bel post Friending vs. Friendship di Mario Tedeschini Lalli che discute con giornalisti in formazione con argomentazioni, da entrambe le parti, molto interessanti.

9 pensieri riguardo “Il senso comune sui social network

  1. Il nuovo, al solito, fa paura. Il problema è a) che Facebook non è nemmeno tanto più nuovo b) è però sconosciuto a chi ne scrive.
    Mentre la gente, le masse, sanno cosa è Facebook, ci sono entrati, lo usano magari solo per giochi e spamming di video o per taggarsi nelle foto oppure lo lasciano là senza metterci chi sa che (due opposti d’uso, ma se andiamo a vedere è così)…chi ne scrive demonizza.
    Son la prima a dire che Facebook non è esattamente il social network come lo intendiamo noi (che abbiamo Twitter, Friendfeed e molto altro). E’, però, il SN che la gente usa.
    Una grande rubrica…dentro la quale si fanno tante cose, stupide ma si fanno.

    1. Mi piace il tuo punto di vista.
      Il “nuovo” ha tempi lunghi di metabolizzazione e per entrare nel senso comune. Molti sono entrati su FB quando i quotidiani e la televisione hanno cominciato a parlarne e questi hanno cominciato a parlarne quando molti hanno cominciato ad entrare sollecitati anche dal passaparola.
      Ora, è vero che in senso tecnologico FB non è “nuovo” ma la sua posizione nella percezione delle persone (in senso generalista) è molto recente ed è in continua evoluzione. Ed è vero che spesso se ne scrive avendone conoscenza di superficie, facendosi un’idea intervistando persone, ecc. Anche questo sta nella logica delle cose.

      Credo però che cosa sarà FB non dipende solo da come la gente lo usa oggi ma anche dagli immaginari che su di lui si costruiscono. E’ su questi immaginari che le persone poi collocano i loro usi e costruiscono i significati.
      Se fossi poi un addetto ai lavori (o un giornalista) non sottovaluterei il fatto che molto tempo dedicato all’intrattenimento si sia sposato sui SN.

  2. Mi permetto di esprimere un’opinione solo perchè, a differenza di altri periodi, sto vivendo più da cicino la realtà di FB.. in questi giorni ho avuto diversi contatti con fbkiani sconosciuti per motivi di studio.
    Penso che forse la vera domanda da porci sia perchè di ogni cosa (fenomeno in modo particolare) i giornalisti – e forse anche gli intellettuali – sentano il bisogno di creare le due fazioni “pro” e “contro”. Facebook lo vivo – anche in funzione della ricerca di cui sopra – come un ambiente, con tutte le complessità e le ricchezze del caso. E per ricchezza intendo proprio varietà…ognuno ne fa l’uso che crede: funzionale, relazionale, espositivo, amplificante etc…con diversi livelli di profondità tanto tecnica quanto proprio di investimento del sè (rispetto agli altri). COme posso definire superficiale, vuoto, sostitutivo di una vita sociale off line inadeguata un post su un muro del gruppo “terremoto in abruzzo” quando il suo autore, attraverso un messaggio privato, mi rivela quanto sia stato importante per lui?..quanta rabbia avesse e quanto bisogno sentisse di dire ciò che pensava?..di essere vicino alla sua gente?… Forse non siamo ancora pronti ad accettaree che FB non è necessariamemnte “una cosa nuova” da definire secondo i criteri “giusto” o “sbagliato”; “v ero” o “falso”… FB è… e basta…a mio avviso, rappresenta il segno di un cambiamento sociale e culturale che dobbiamo accettare e che, vuoi o non vuoi, ci vede protagonisti…”esserci” nella sua accezione più ampia e globale…Susate ..mi sono dilungata tantissimo…

  3. Rileggendoli entrambi però ho l’impressione che avessero ben poca pretesa “scientifica” ma desiderio di raccontare una grande delusione personale: signori, ci eravamo tutti illusi che duecento, trecento fan-followers-iscritti fossero altrettanti “amici” e invece sono solo “contatti”, com’è triste la vita e fuori piove pure! E’ una delusione reale e tanti l’hanno provata. I ragazzini invece non “staccano la spina” perché non non hanno avuto il tempo di costruirsi apettative, vivono il presente e lo “giocano” con gli strumenti che si trovano intorno. Anche dire che FB è nato per un motivo preciso (ritrovare vecchi amici) è invitare la delusione a casa : FB è solo un contenitore, sei tu a riempirlo.
    Forse non dovremmo nemmeno considerare i due articoli su un piano informativo ma su quello del racconto personale, dove hanno via libera le sensazioni senza il supporto di dati concreti. Con il solo limite di evitare generalizzazioni, possibilmente.

  4. io davanti a certi articoli dico alla maniera di Dante: non ti curar di loro ma guarda e passa, mi annoio persino a leggerli, li dò per scontati.
    E’ solo gente che vuol far parlare di sè…lo abbiamo capito ormai da tempo… e quale modo migliore che fare certi discorsi?
    di fondo non c’è nessun scopo culturale, ma solo l’ennesimo gesto esibizionista di persone disadattate che però tengono moltissimo ad avere un folto numero di fans…e a voler farsi notare a tutti i costi (ovviamente come sempre alle spalle degli altri).
    non so se mi spiego
    😉

  5. Un giornale popolare come “Gente”, importante perché tra quelli in grado di formare l’opinione di una certa fetta di pubblico (casalinghe, anziani, ceti medio-bassi) nello stesso numero presenta due visioni distorte e non informate della Rete.

    Una lettrice parla della figlia che si “stava rovinando la vita con Internet” perché aveva relazioni virtuali e reali con maggiorenni conosciuti in Rete e postava suoi video: solo con l’aiuto di uno psicologo la ragazza è uscita “dal tunnel” di Internet. La direttrice del giornale, Monica Mosca, le risponde: “Non che questo consoli, ma è per dire che tua figlia fa parte di quell’immensa schiera di giovanissimi che forse scambiano la vita vera e i suoi valori con quella virtuale e, per sua stessa definizione inesistente, proposta da un certo sbagliato utilizzo della Rete”.

    Più avanti l’ineffabile Meluzzi in un articolo intitolato “Se l’odio naviga in Rete” scrive una serie di banalità sull’argomento, concludendo che “occorre qualche uomo di buona volontà immetta in questo immenso fiume segni, parole, punti di aggregazione che invertano una tendenza tossica e incendiaria”.

    Quello che disturba e che irrita non è la critica della realtà della Rete, ma, al solito, la critica basata su una scarsa o nulla conoscenza della realtà presa di mira; un ripetersi continuo di cliché, di frasi fatte, di memi che sopravvivono ai temi a cui sono agganciati al momento. Le stesse sequenze di parole si possono leggere in pubblicazioni vecchie di decenni e associate via via alla musica rock, alla televisione, ai cartoni animati giapponesi, ai videogiochi.

    La colpa più grave di una rappresentazione tanto distorta proposta a un pubblico che difetta di spirito critico non è solo creare diffidenze e ostilità verso strumenti che plasmano il presente e ancor di più il futuro di una società ma soprattutto relegare a nicchie sociali esclusive il dibattito serio e informato, le riflessioni, le critiche anche aspre ma motivate necessarie per imparare insieme a vivere nel modo migliore possibile la realtà digitale.

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