Il blocco di Twitter in Turchia: tra doppia morale ed effetti perversi

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Non sappiamo abbastanza sull’impatto relativo dei social media sui movimenti tanto da poterci fare un’idea definitiva sul tipo di mutamento che stanno creando nei modi in cui si svolgono azioni collettive come quelle di protesta.

Possiamo però continuare ad osservarne l’evoluzione, calandoci nel fenomeno vivo, quello che riguarda cittadini, istituzioni, movimenti e media nei diversi Paesi laddove emerga con evidenza.

Come ci sta mostrando di nuovo la Turchia in questi giorni. In Turchia abbiamo già potuto osservare nei giorni di #occupygezi come su Twitter 3 milioni e mezzo di cittadini abbiano parlato al paese (la maggior parte dei tweet era in lingua turca), si siano auto organizzati e abbiano dato visibilità al dissenso anche a livello internazionale (con tweet in inglese, immagini reportage, ecc.).

Giovedì 20 marzo durante un comizio elettorale il premier turco Erdoğan ha detto: “Estirperemo Twitter e gli altri, non mi interessa cosa dice la comunità internazionale”. E il 21 marzo molti account sono diventati irraggiungibili spegnendo, di fatto, Twitter in parti via via crescenti del paese. Opera dell’autorità per le tecnologie dell’informazione e della comunicazione turca (BTK) che ha esercitato il suo potere di oblio dei contenuti a partire dal potere conferitogli da una “legge bavaglio” su Internet osteggiata dall’opposizione.

La reazione è stata immediata: hanno cominciato a circolare online e offline le informazione di come cambiare i nomi di dominio (DNS) su cellulari, tablet e computer, i consigli per usare VPN e utilizzare Tor per violare il blocco .

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Circolano gli indirizzi dei DNS da utilizzare scritti con sfregio con bombolette sui manifesti elettorali.

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L’effetto è stato il montare di un’onda comunicativa che ha coinvolto il mondo connesso attraverso Twitter, come ha mostrato l’hashtag #twitterblockedinturkey che è stato trending topic mondiale.

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E anche lo stesso Twitter ha contribuito attraverso l’account ufficiale Policy, diffondendo il modo in cui passare da sms per pubblicare i propri contenuti.

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Sulle pagine di Pagina99 (quello di carta, che online esce ma abbiate pazienza) approfondisco alcune cose che si stanno evidenziando, qui provo a sintetizzarne due:

1. Ci troviamo di fronte ad una doppia morale che si applica ai social media nel rapporto fra cittadini, istituzioni e player del digitale: per cui da una parte si garantisce libertà d’espressione agli utenti e dall’altra gliela si toglie. Twitter toglie, Twitter dà. Si accontentano governi e cittadini, in qualche modo, salvaguardando la forma della democrazia entro le maglie dei contenuti dettati dal mercato. Ci si schiera su più fronti, rispettando le regole locali e suggerendo come aggirarle, strizzando l’occhio alla comunità internazionale che protesta per il blocco.

2. Si crea un cortocircuito fra potere reale e percepito dei social media che genera effetti perversi: la narrazione sul twitter power tocca i manifestanti, viene rappresentata dai media e legittimata dagli stessi governi che nel timore che questo potere esista lo producono tentando di spegnere il flusso dei tweet. Sono gli effetti perversi di azioni intenzionali che producono effetti inintenzionali, finendo per provocare proprio le conseguenze che si provava ad allontanare.

5 pensieri riguardo “Il blocco di Twitter in Turchia: tra doppia morale ed effetti perversi

  1. Il laboratorio più interessante e inquietante di repressione del web si trova nella Repubblica Popolare Cinese. In questo caso la censura e la repressione è quella di un rigido e severo sistema totalitario, con il controllo della posta elettronica, la proibizione di molti social network popolari in Occidente, l’identificazione e la schedatura degli internauti, il controllo e la soppressione di ricerche scomode nei motori di ricerca, l’impossibilità di accedere alle pagine di siti stranieri che criticano il regime. E se ciò non bastasse, si passa dalla repressione del mondo virtuale alla repressione fisica con l’arresto e la prigionia. In Cina i reati di opinione sono severamente puniti, e i blogger incarcerati sono una triste consuetudine.

    1. Verissimo. Ma teniamo anche conto che la Turchia è al vertice nella classifica del rapporto dell’organizzazione indipendente Committee to Protect Journalists con 40 giornalisti detenuti. Più della Cina. Il mix tra repressione online e offline è un altro dato da osservare.

  2. Per fare il giornalista in Cina bisogna superare un particolare esame per dimostrare la propria fedeltà al regime. I giornalisti cinesi sono selezionati direttamente dagli uffici del partito, dopo una severa analisi dei requisiti. Quindi è molto difficile che esistano giornalisti non integrati nel sistema di controllo dell’informazione. Infatti i giornali cinesi forniscono tutti la stessa versione dei fatti, senza variazioni o diversità. Non esiste nessun media indipendente e libero in Cina, nemmeno nel web. Forse questa omogeneità dell’informazione cinese è l’aspetto più inquietante poiché fornisce una manipolazione della coscienza delle masse con risvolti orwelliani.
    Il caso della Turchia è comunque grave perché questo paese viene considerato molto vicino all’Europa, fa parte della Nato, e viene considerato un alleato dell’Occidente. Ma non è affatto chiaro che cosa si intenda realmente per vicinanza all’Occidente.

  3. Un caso preoccupante quello della Turchia che ci induce a riflettere. Internet viene esaltato per i suoi aspetti commerciali, ma quando tocca gli interessi dei potenti allora non ci si preoccupa nel calpestare i diritti e la libertà.

    La Cina costituisce la situazione più grave di mancanza di rispetto dei diritti degli internauti. Recentemente le autorità governative hanno annunciato la realizzazione del COS (China Operating System), un sistema operativo che dovrebbe scalzare e sostituire le piattaforme occidentali. Questo è il primo sistema operativo che non è creato da una azienda privata, ma da uno stato. Gli scopi sono abbastanza manifesti. Il COS permetterà un migliore controllo della rete da parte delle autorità.

    La Cina

  4. Twitter in Cina è bloccato dal 2009, ma nessuno si scandalizza. Ormai abbiamo accettato la repressione sociale della Cina come una caratteristica intrinseca di quel paese.
    Nonostante qualche tentativo per ottenere le autorizzazioni, Facebook e Twitter restano vietati in Cina. Il sistema repressivo cinese ha anche realizzato una immensa struttura informatica per bloccare ogni tentativo per aggirare la censura. Questa “grande muraglia” digitale è la più grande e potente struttura di controllo e repressione informatica attualmente esistente.
    Purtroppo in Occidente se ne parla davvero poco per non rovinare i rapporti diplomatici con la Cina.

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